È morto il 30 novembre a New York un maestro del Novecento. Artista del bianco e nero, fotografò i grandi e la gente comune con dolcezza e ironia. Da bambino visse a Milano e fu una colonna della Magnum.
Nato a Parigi il 26 luglio 1928 da genitori ebrei di origini russe, Erwitt aveva trascorso la sua infanzia a Milano, fino a quando, nel 1939, si trasferisce negli Stati Uniti con la famiglia per fuggire dalle leggi razziali. L’adolescenza l’avrebbe passata a Hollywood, dove inizia presto a lavorare nella camera oscura di uno studio fotografico prima di iscriversi a un corso di fotografia presso il Los Angeles City College. Nel 1948 si sposta a New York dove studia cinema alla New School of Social Research. Nel 1949 decide di tornare in Italia e in Francia dove, questa volta, arriverà da fotografo, accompagnato dalla sua fedele Rolleiflex. Nel 1951 presta il servizio militare per l’esercito statunitense in Germania e Francia, dove avrà modo di scattare ancora fotografie.

«St. James’s Park. Londra, 1952» (Erwitt /Magnum Photos; Archivio Corsera)

La svolta per la sua carriera di fotografo avviene però a New York, quando conosce Robert Capa, Edward Steichen e Roy Stryker. Proprio quest’ultimo lo avrebbe assunto alla Standard Oil Company per un libro fotografico e un reportage sulla città di Pittsburgh. Nel 1953 Erwitt entra a far parte dell’agenzia Magnum e contemporaneamente inizia a collaborare come freelance con riviste del calibro di «Life». Alla fine degli anni Sessanta è presidente della Magnum per tre anni.

Dopo questo periodo inizia la carriera di fotografo indipendente, lavorando per «Collier’s», «Look», «Life», «Holiday» e per aziende come le compagnie aeree Air France e Klm. Dagli anni Settanta Erwitt si sarebbe concentrato sul cinema, realizzando film e documentari, trasformandosi di volta in volta in operatore addetto alla camera per Gimme Shelter (1970), in fotografo di scena per Bob Dylan: No Direction Home (2005) e in fotografo aggiunto per Get Out Yer Ya Ya (2009).

Elliot Erwitt è stato un fotografo universalmente riconosciuto per la delicata ironia del suo sguardo, che ha sempre preferito rivolgere alle assurdità presenti nella nostra società piuttosto che alle sue patologie. Pur prendendo estremamente sul serio la fotografia, ha sempre sostenuto l’estrema importanza dell’umorismo: «Fare ridere le persone è uno dei più grandi risultati che si possano raggiungere. È molto difficile, per questo mi piace». L’ironia di Erwitt appariva sempre presente, in ogni scatto, in ogni situazione (nella serie Icons come nella serie Family a cui il Mudec di Milano ha dedicato nel 2020 una bella mostra). Uno sguardo rivolto al mondo sempre bonario, accompagnato da una buona dose d’accondiscendenza.
I cani sono stati uno dei suoi soggetti preferiti e non perché ne fosse particolarmente affascinato, ma perché con i loro atteggiamento naturale e irriverente, fungono da perfetto contraltare alla pomposità e alla ricercata compostezza dei loro padroni. La sua spiccata attenzione nei confronti degli aspetti apparentemente più frivoli della società, lo avrebbe resero un protagonista sui generis della straordinaria fucina della Magnum. Eppure anche quando si sarebbe cimentato nel più classico fotogiornalismo, Erwitt avrebbe saputo regalare ai suoi «spettatori» immagini in grado di fissare nella memoria di intere generazioni passaggi storici di portata mondiale: dalla foto di Jacqueline Kennedy durante il funerale del marito, a quella di Richard Nixon che punta il dito sul petto di Nikita Kruscev, dai ritratti di Che Guevara a quelli di Marilyn Monroe.